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Disaster Recovery, cos’è e quante Pmi italiano lo adottano? 

Cos’è il Disaster Recovery? E in cosa si differenzia dal Backup? “Backup e Disaster Recovery hanno due scopi profondamente diversi ma al contempo complementari. Il primo mira a salvaguardare il dato in seguito a cancellazioni, errori umani o in generale perdita dati. Il secondo protegge il sistema nel suo complesso, compreso il sito di erogazione, garantendo una ripartenza in tempi certi ed in qualunque circostanza, anche a seguito di disastri ambientali o catastrofici, andando quindi oltre il concetto di dato ed includendo invece tutto quello che gli orbita intorno” spiega Lorenzo Giuntini, CTO di Aruba. “Visti i pericoli, anche potenzialmente disastrosi, a cui si espone un’azienda priva di questi servizi, la strategia più corretta per la sua tutela è quella di implementare entrambe le soluzioni. Per farlo non esiste un’unica via: la scelta delle soluzioni e delle modalità più adatte passa attraverso un’attenta analisi dei rischi, la classificazione dei dati e la definizione del perimetro di protezione. Solo in questo modo è possibile costruire l’infrastruttura più adeguata a garantire e ad assicurare la continuità operativa aziendale in ogni condizione”.

Non più un piano B

Anche se appare evidente che oggi il il Disaster Recovery non sia più un piano B, ma una componente basilare da considerare in fase di progettazione, resta il fatto che il 68% delle piccole e medie aziende italiane non è intenzionata ad adottare una soluzione di Disaster Recovery neanche nel lungo periodo.  Ripristinare l’accesso e la funzionalità dell’infrastruttura IT a causa di attacchi informatici, interruzioni e guasti, rappresenta per le aziende la soluzione “as a service” più importante da implementare per garantire la propria business continuity. Eppure, il 73% delle PMI italiane non è dotata di un piano di Disaster Recovery. A dirlo è l’indagine condotta da Bva Doxa per Aruba sul tema della conservazione e sicurezza dei dati, e, in dettaglio, sulla disponibilità di piani di Disaster Recovery nelle PMI italiane.

L’80% delle PMI non pianifica l’adozione di un sistema di Disaster Recovery

Stando ai risultati della ricerca, il 68% delle PMI intervistate non è interessato ad introdurre piani per il ripristino dei dati neanche nel lungo periodo. Più in dettaglio, è l’80% delle piccole imprese a non pianificare l’adozione di un sistema di Disaster Recovery neanche nel prossimo futuro, a fronte del 53% delle medie imprese.
Eppure, come già reso noto in una recente Survey targata BVA Doxa-Aruba, 7 aziende su 100 hanno sperimentato una perdita di dati nel corso degli ultimi anni, subendo in media un downtime di quasi 2 giorni e con danni economici non quantificabili per il 43% degli intervistati. Nella stessa indagine, Aruba e BVA Doxa avevano rilevato anche come una PMI su 4 dichiarasse di non disporre neanche di una soluzione di backup; attestando, invece, al 57% la percentuale di aziende dotate di un backup in cloud.

Riduzione del personale e rischi di cybersecurity per le Pmi

Secondo alcuni studi, nonostante durante la pandemia la fidelizzazione dei team aziendali sia stata la priorità assoluta per quasi la metà delle organizzazioni, molte aziende potrebbero essere costrette a ‘tagliare’ il personale per ridurre i costi. Ma la riduzione del personale può causare ulteriori rischi di cybersecurity, soprattutto alle Pmi. Kaspersky ha intervistato più di 1.300 responsabili di Pmi in tutto il mondo per scoprire quali rischi di cybersecurity potrebbero comportare le misure anti-crisi. E di fatto, solo il 51% dei dirigenti è sicuro che i propri ex dipendenti non abbiano più accesso ai dati aziendali archiviati nei servizi cloud, e solo il 53% che gli ex dipendenti non possano più usare gli account aziendali.

L’uso improprio dei dati da parte degli ex dipendenti preoccupa i dirigenti

Dal momento che quasi la metà degli intervistati non è riuscita ad affermare con certezza che i propri ex dipendenti non abbiano accesso alle risorse digitali dell’azienda, la riduzione del personale potrebbe mettere ulteriormente a rischio la sicurezza dei dati e il futuro dell’azienda. Infatti, l’uso improprio dei dati da parte degli ex dipendenti nei nuovi posti di lavoro, o per procurarsi nuovi clienti, è stato il principale motivo di preoccupazione per i dirigenti. La maggior parte dei dirigenti aziendali teme infatti che gli ex dipendenti condividano i dati interni dell’azienda con i nuovi datori di lavoro (63%) o utilizzino i dati aziendali, come quelli dei vecchi clienti, per lanciare la propria attività (60%).

Quando l’accesso alle informazioni condivise non viene interrotto

“L’accesso non autorizzato può diventare un problema enorme per qualsiasi azienda, con ripercussioni sulla sua competitività quando i suoi dati vengono trasferiti a un concorrente, venduti o cancellati – ha spiegato Cesare D’Angelo, General Manager Italia di Kaspersky -. Il problema si complica quando i dipendenti utilizzano attivamente servizi aziendali o ‘shadow IT’ che non sono distribuiti o controllati dai dipartimenti IT aziendali. Se l’utilizzo di questi servizi non viene gestito dopo il licenziamento di un dipendente, ci sono poche possibilità che l’accesso alle informazioni condivise tramite queste applicazioni venga interrotto per un ex lavoratore”.

Ma le imprese non risparmiano sulla cybersecurity

Nel complesso, il 31% degli intervistati considera la riduzione dell’occupazione come una possibile misura per tagliare i costi in caso di crisi. Tra le altre misure di riduzione dei costi più diffuse gli intervistati indicano la diminuzione delle spese per la pubblicità e la promozione (36%), e quella per i veicoli (34%). La cybersecurity, invece, non sembra essere un’area in cui i responsabili preferirebbero risparmiare sul budget.

Inquinanti aria, Italia verso obiettivi 2030

Buone notizie per quanto riguarda l’ambiente (e di conseguenza la salute dei cittadini). In base a quanto diffuso da Enea, l’Italia è avviata a centrare gli obiettivi al 2030 di riduzione delle emissioni dei principali inquinanti atmosferici, con benefici in termini di salute (-50% di decessi rispetto al 2010) ed economici (33 miliardi di euro risparmiati rispetto allo stesso anno). I dati sono contenuti in uno studio Enea pubblicato sulla rivista scientifica Atmosphere, che ha valutato l’efficacia delle politiche e delle misure per la qualità dell’aria.

Gli obiettivi del Piano

Nei prossimi 10 anni, grazie alle misure previste dal Piano, il nostro Paese potrà centrare gli obiettivi di riduzione delle emissioni stabiliti dall’Unione europea per biossido di zolfo (-80% contro un target Ue del 71%), ossidi di azoto (-70%, target Ue 65%), PM2.5 (-42%, target Ue 40%), Composti Organici Volatili Non Metanici (-50% target Ue 46%) e ammoniaca (-17% target Ue 16%).
“Per raggiungere questi obiettivi, il nostro Paese dovrà agire su più fronti, con un mix di interventi che comprendono la decarbonizzazione della produzione di energia, l’efficienza energetica nel residenziale, la diffusione della mobilità elettrica e l’adozione di nuove pratiche agricole per la riduzione delle emissioni di azoto”, spiega Ilaria D’Elia, ricercatrice del laboratorio Enea Inquinamento Atmosferico e co-autrice dello studio. “Ma questi  sono solo alcuni esempi di misure da adottare per l’abbattimento degli inquinanti atmosferici. Sarà importante che le numerose  azioni da intraprendere siano di tipo strutturale e non saltuario e che diano luogo a una vera programmazione integrata e sinergica tra politiche legate al clima, all’energia e all’inquinamento atmosferico”.

Quando fa bene “abbattere”

Secondo l’analisi svolta dal team dell’Agenzia, al 2030 la riduzione delle emissioni di biossido di zolfo sarà trainata da alcuni comparti, in particolare quello marittimo (-89% rispetto ai valori del 2010) e della produzione di energia (-59%). È previsto un forte calo anche per le emissioni degli ossidi di azoto, soprattutto nel settore del trasporto su strada (-74%) e della generazione elettrica (-46%). Sul fronte del PM2.5, il settore che fornirà il maggiore contributo in termini di abbattimento delle emissioni di particolato ultrafine è il settore civile (-46%) che continuerà a mantenere il primato per tali emissioni al 2030. L’ammoniaca rimane l’inquinante con le riduzioni più basse (-9% rispetto ai valori del 2010), un risultato ottenuto soprattutto grazie al minore impiego di fertilizzanti a base di urea nel settore agricolo e delle emissioni zootecniche.

Sostenibilità, gli italiani la cercano in vacanza? E se sì, come?

La coscienza ambientalista è un valore sempre più condiviso, in tutti gli ambiti, e anche le vacanze non fanno eccezione. Per scoprire quale sia veramente il rapporto tra italiani e sostenibilità arriva il sondaggio svolto dall’app Junker, che ha coinvolto 40mila persone in tutto il paese. Le risposte sono per certe versi sorprendenti e mettono in luce il fatto che i viaggiatori sarebbero ancora più “virtuosi” se fossero messi nelle condizioni di farlo.

Le donne più “attente” degli uomini

Tra le oltre 10mila persone che hanno completato il sondaggio, si scopre innanzitutto che il 59% è rappresentato da donne. Anche la ripartizione anagrafica è interessante: 4,3% fino ai 25 anni (per il tipo di domande il questionario era destinato a un target adulto, decisore e con capacità di spesa), 23% 26-45 anni, 53% da 46 a 65 anni e infine 19% over 65. Quest’ultimo dato è molto interessante perché, mentre dai giovanissimi ci si aspettano scelte più sostenibili anche in tema di viaggi, il target maturo era totalmente inesplorato.

Attenti anche in viaggio

Ritornando al campione, l’86,5% sostiene che il suo impegno per la sostenibilità prosegue anche in vacanza. Ci sono però risultati sorprendenti in relazione a questa importante affermazione iniziale. Se si va ad approfondire, ad esempio, il tema dell’alloggio, che è l’aspetto su cui si concentra maggiormente il sondaggio della piattaforma, il 63% dei rispondenti, circa 6700, è pronto a tenere in considerazione la sostenibilità dell’alloggio nella scelta per le proprie vacanze. Di questi, il 38,8% sarebbe disposto addirittura a pagare un 5-10% in più per alloggi realmente sostenibili. Poi però il 40,9% del target non sa rispondere alla domanda se effettivamente la struttura ricettiva presso cui ha alloggiato fosse o meno ecosostenibile. Ma cosa si aspettano da una struttura che si definisce ecosostenibile? In primis, bidoni per la differenziata (86,4%), poi l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile (65,9%) e regolatori di flusso per i rubinetti (45%). Meno considerati i prodotti sfusi/km zero offerti durante i pasti (32,3%) e i dispenser per shampoo, sapone, ecc. (29,5%).

La sostenibilità dovrebbe essere uno standard

Anche se quasi 4mila intervistati sostengono di scegliere l’alloggio soprattutto per la convenienza economica, conforta il fatto che l’88% del totale concorda che la sostenibilità di una struttura ricettiva debba essere uno standard generalmente valido e non l’eccezione e che un host attento a questo aspetto sia di buon esempio per i propri ospiti. E il 75,8% si è sentito almeno una volta a disagio quando non ha avuto a disposizione i bidoni per fare la raccolta differenziata nella struttura dove alloggiava, che davvero ci sembra il dato minimo della sostenibilità di un alloggio.

Mercato Immobiliare 2022: analisi e prospettive

Nonostante i rincari e un mercato caratterizzato da scarsa capacità reddituale e dipendenza da credito, il desiderio di acquisto dell’abitazione da parte delle famiglie continua a essere significativo
Secondo il 2° Osservatorio sul Mercato Immobiliare 2022 di Nomisma, molte famiglie intenzionate ad acquistare ammettono di non poter prescindere dal credito. L’atteggiamento delle banche, allo stesso tempo, si sta facendo più cauto e questo porterà a non soddisfare parte delle richieste.
“Sono oltre 3,3 milioni i nuclei familiari che si dicono intenzionati, potendo, ad acquistare un’abitazione – spiega Luca Dondi dall’Orologio, Amministratore Delegato Nomisma -. Colpisce il fatto che in un momento come questo, in cui si tende addirittura a erodere il risparmio, la casa rimanga nell’immaginario collettivo degli italiani un baluardo a cui aggrapparsi”.

Un’offerta residenziale non adeguata alle nuove esigenze

La domanda di casa è caratterizzata dalla ricerca di dotazioni accessorie divenute imprescindibili e dall’esigenza di raggiungere il centro urbano e i servizi in un tempo di 15 minuti da casa, a piedi o in bicicletta. 
“A questa necessità si contrappone una carenza di offerta sia per le case in vendita sia in locazione, non solo dal punto di vista quantitativo ma anche qualitativo”, precisa l’AD. In particolare, la domanda locativa deve fare i conti con la carenza di immobili di 50-90 mq e oltre i 120 mq, e con una disponibilità pressoché nulla di queste soluzioni abitative nei centri città.
Ma come sarà l’edilizia del futuro? “Estensiva, compenetrata col verde – commenta Carlo Alessandro Puri Negri, Presidente di Blue SGR -, gli uffici dovranno tenere conto di esigenze di flessibilità e di sicurezza, perché andremo sempre più incontro a una soluzione mista, che vede sia il lavoro da casa sia il lavoro in ufficio e dovranno prevedere spazi destinati al benessere e alla socialità degli occupanti”.

Compravendite e locazioni

Nell’ultimo semestre la domanda di locazione ha rappresentato il 42% della domanda presente sul mercato ed è leggermente cresciuta rispetto all’anno scorso. Nonostante questo lieve aumento, si è ancora molto lontani dal punto di equilibrio acquisto-locazione rilevato nel periodo pre-Covid. 
Come ha evidenziato la Responsabile dell’Osservatorio Immobiliare Elena Molignoni, sono principalmente due le motivazioni che spingono la domanda di affitto: “una percentuale esigua di famiglie sceglie questa opzione per ragioni familiari e lavorative, mentre la maggior parte si orienta sulla locazione perché si sente esclusa stabilmente o temporaneamente dal mercato della proprietà”.

La risalita dei prezzi tocca anche uffici e negozi

Al 30 giugno 2022 la variazione annuale dei prezzi delle abitazioni è risultata pari al +2,9% nella media dei 13 principali mercati nazionali, con un range di variazione che va dal +6,3% di Milano al -0,2% di Venezia Laguna. Un risultato coerente con l’intensità della domanda e l’incremento delle compravendite. La dinamica di rialzo dei prezzi ha interessato anche uffici e negozi, che dopo 13 anni di flessione, hanno registrato per la prima volta una variazione positiva dei prezzi, timida risalita dovuta alla riduzione del potere contrattuale della domanda.

Lavoro, chi seleziona il personale deve guardare al futuro

Attraverso l’analisi del curriculum vitae, le referenze e l’immagine online del candidato a una posizione lavorativa, chi si occupa di recruiting compone un’istantanea dei profili migliori, per poi scegliere quello più idoneo in base alle esigenze dell’azienda. Il processo di selezione tradizionale prevede di premiare con l’assunzione la persona con le migliori competenze e le capacità più adatte a soddisfare i bisogni dell’organizzazione. Per questo motivo, negli annunci di lavoro, viene elencata una serie di requisiti fondamentali che devono trovare risposta nei curricula inviati. Ma è davvero sufficiente focalizzarsi sul presente al momento della selezione del personale?

Il recruiter non deve pensare unicamente al presente

Secondo Carola Adami, fondatrice di Adami & Associati, società internazionale di head hunting specializzata nella selezione di personale qualificato e nello sviluppo di carriera, la risposta è no.
“Chi struttura un processo di selezione del personale pensando alle necessità attuali dell’azienda sbaglia, per il semplice fatto che quel candidato non dovrà lavorare oggi – spiega Adami -. No, sarà al lavoro domani, il giorno dopo e il giorno dopo ancora, e per questo motivo chi si occupa di recruiting non deve pensare unicamente al presente, concentrandosi invece anche e soprattutto sul futuro”.

La società sta cambiando e la tecnologia corre ancora più rapidamente

Certo, un tempo era possibile concentrarsi solamente sul presente. Fino a qualche decennio fa, infatti, i cambiamenti all’interno dei vari settori erano piuttosto lenti. Oggi la situazione è invece profondamente diversa.
“La società sta cambiando velocemente, e l’evoluzione tecnologica sta correndo ancora più rapidamente – aggiunge l’head hunter -. Questo significa che per rimanere al passo è necessario aggiornarsi continuamente, senza mai smettere di imparare. Dal punto di vista di chi si occupa di ricerca e selezione del personale vuol dire anche che non bisogna assumere ciecamente chi soddisfa i criteri richiesti dall’azienda oggi, bensì chi riuscirà a farlo domani e dopodomani, andando oltre i titoli e le hard skills”.

Serve anche una conoscenza del settore specifico

La semplice analisi del curriculum vitae può quindi dare solo una prima idea sulle effettive capacità del candidato. Per effettuare la scelta giusta è necessario condurre interviste in profondità, e soprattutto, conoscere bene quelli che potranno essere gli sviluppi del settore.
“Questo significa che la selezione del personale deve essere fatta a partire da uno studio profondo dei candidati, nonché da una conoscenza specialistica del settore: non è un caso se la nostra società di head hunting può contare su cacciatori di teste specializzati in singoli settori – sottolinea Adami -. Un recruiter che si presta a processi di selezione per qualsiasi settore, dall’automotive al marketing, dal retail alla sanità, non può infatti avere le competenze sufficienti per capire davvero di cosa ha e avrà bisogno un’azienda per continuare a essere competitiva”.

Pandemia: cosa e come è cambiato nel mondo del lavoro?

Se il mese di maggio ha segnato un nuovo importante passo verso il ritorno alla normalità, e prima o poi il Covid-19 resterà un terribile ricordo, dopo la pandemia il mondo del lavoro non tornerà quello di prima. 
“Di certo la gestione delle risorse umane non fa eccezioni – spiega Carola Adami, fondatrice di Adami & Associati -. Anzi, è forse proprio nella gestione e nella selezione dei talenti che il mondo del lavoro è cambiato maggiormente con l’emergenza sanitaria”.
Ma quando si pensa alle rivoluzioni portate o accelerate dalla pandemia si pensa soprattutto allo smart working. “Il lavoro agile è qualcosa che era già pronto a diffondersi, ma con la pandemia ha conosciuto un’enorme accelerazione”, continua Adami. Oggi infatti si allarga il fronte dei lavoratori desiderosi di mantenere il lavoro da remoto.

Il lavoro agile richiede flessibilità mentale

“La maggior parte dei candidati punta a uno o due giorni di lavoro in agilità alla settimana, per meglio equilibrare sfera professionale e personale”, sottolinea Adami.
Non si parla però solo di smart working: la pandemia ha cambiato in modo diretto e indiretto anche altri aspetti del mondo del lavoro. Da una parte il Covid-19 ha portato le aziende a cercare qualcosa di diverso nei nuovi assunti, soprattutto agilità e flessibilità mentale, dall’altra ha portato i dipendenti a focalizzarsi maggiormente sull’importanza del proprio benessere fisico e psicologico.
“In generale, le persone sono meno disposte a fare compromessi su questi aspetti, e il significativo aumento di dimissioni volontarie che hanno avuto luogo anche in Italia lo dimostra”, aggiunge Adami.

Il fenomeno delle dimissioni volontarie

A dimostrare che la Great Resignation non è un fenomeno unicamente americano, un’indagine Aidp, Associazione italiana per la direzione del personale, effettuata su 850 rispondenti tra direttori del personale e aziende, attesta che il 75% delle aziende italiane ha già avuto a che fare con un aumento delle dimissioni volontarie. In particolare, per quanto riguarda le aree informatica, marketing e produzione.
“L’aumento delle dimissioni è in linea con la volontà via via più forte dei dipendenti di avere un lavoro quanto più possibile ideale – commenta l’head hunter -: si mira a posti in cui sia possibile fare davvero la differenza, in cui ci si possa sentire un elemento integrante e indispensabile”.

I Millennial chiedono formazione continua

Nel caso dei lavoratori più giovani sono ulteriori gli aspetti da prendere in considerazione: “per i Millennial è particolarmente importante il tema della formazione continua in azienda, con la possibilità di crescere, di imparare e di fare carriera, che finisce per superare per importanza il fattore stipendio”, dichiara Adami.
Non va poi sottovalutato il fatto che i giovani sono sempre meno disposti a lavorare per realtà che non rispecchiano i loro valori: “anche questo punto deve essere tenuto in grande considerazione – puntualizza Adami – per non vedere calare inesorabilmente le candidature in risposta ai propri annunci di lavoro”.

La sostenibilità insostenibile, come evitare l’effetto greenwashing

Nella fisica l’aggettivo ‘sostenibile’ indica un processo o uno stato che può essere mantenuto a un certo livello indefinitamente. Partendo dal concetto di assenza di alterazioni, nella realtà dei nostri giorni questo termine ha raccolto tanti altri significati, fino ad assumere la sostanza di una vera e propria etica. In questo processo di desemantizzazione, l’aggettivo ‘sostenibile’ viene usato molto: ci circonda quotidianamente nei contesti più svariati, dalle tematiche ambientali a quelle sociali, per giungere fino ai prodotti di consumo. Al suo significato contrario di ‘insostenibile’ si ricorre invece sempre meno, come se l’accezione diventata principale, crescendo a dismisura, abbia cancellato le altre.

Quando le aziende occultano l’impatto ambientale negativo

Eppure, se guardiamo nello specifico alle aziende che fanno uso dell’aggettivo ‘sostenibile’ per i propri prodotti, accade di frequente di trovare casi ‘insostenibili’, ovvero non difendibili sul piano della correttezza logica e della validità delle argomentazioni. In buona sostanza, non credibili.
Negli ultimi anni, con la crescente adesione ai temi della sostenibilità, si è assistito alla diffusione del Greenwashing, una strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo. Si tratta del tentativo di conseguire i benefici di un posizionamento incentrato sulla sostenibilità millantandolo in maniera totale o parziale, ad esempio valorizzando solo alcuni attributi e spostando l’attenzione da ciò che ha maggiore impatto ambientale.

Recuperare credibilità è più difficile di costruirla

Da sempre smentire è molto più difficile che affermare. Nel nostro mondo di connessione totale, è diventato nettamente più difficile. Recuperare credibilità è quindi più difficile di costruirla.
Il rischio che corre chi pratica il greenwashing è lo stesso di chi afferma l’insostenibile: la perdita di credibilità. In questo caso, con l’aggravante della gravità del contesto. Infatti, è difficile immaginare qualcosa di peggio per un’azienda che dare di sé l’immagine di mentire sugli aspetti legati all’etica.

Gli sforzi verso la sostenibilità devono essere plausibili e non strumentali 

Ma anche le aziende che agiscono in maniera trasparente e corretta possono essere equivocate. In un contesto come quello della sostenibilità, dove la conoscenza è scarsa e regna l’incertezza, è fondamentale chiarire ogni dubbio e verificare che gli sforzi verso la sostenibilità siano ritenuti sostenibili, cioè plausibili, non strumentali o, peggio ancora, non mistificatori.
Per questo motivo Eumetra ha sviluppato un modello di analisi proprietario volto a verificare quanto il grande pubblico ritenga sostenibili le promesse nell’ambito della sostenibilità dei prodotti, quanto lo siano le specifiche referenze, e quanto è probabile che vengano realmente adottate.

Produzione industriale lombarda, il 2021 chiude a +15,6%

Secondo i dati del IV° trimestre 2021 pubblicati da Unioncamere Lombardia la produzione industriale lombarda nel quarto trimestre 2021 cresce del +2,3% congiunturale e chiude l’anno in rialzo, sia rispetto al 2020 (+15,6%) sia al 2019 (+4,3%). Rimane comunque alta l’attenzione sui prezzi per i rincari di beni energetici, e persistono ancora difficoltà nelle catene di fornitura. Le aspettative delle aziende sull’andamento della domanda rimangono positive e in linea con i livelli massimi storici, pur in leggera flessione per il mercato interno, così come per le aspettative sulla produzione. Ancora in miglioramento le aspettative occupazionali per il prossimo trimestre.

Dinamiche settoriali

La maggior parte dei settori industriali chiudono il 2021 con un recupero dei livelli produttivi. A consuntivo la crescita media annua 2021/2019 vede le buone performance di Minerali non metalliferi (+7,8%), Gomma-plastica (+7,7%), Chimica (+7,3%), Meccanica (+6,6%) e Siderurgia (+6,1%). In crescita, sebbene meno accentuata, Alimentare (+3,8%), Mezzi di trasporto (+2,5%), Legno-mobilio (+2,5%) e Industrie Varie (+1,9%). La fase di ripresa si è avviata anche per i restanti settori, ma con minor intensità: il settore della Carta-stampa si ferma a -1,0%, mentre il comparto moda appare più in affanno, con Pelli-calzature a -4,9%, Tessile -8,6% e Abbigliamento -15,8%). Meno positivo il quadro dell’artigianato per i settori che segnalano un risultato a consuntivo ancora negativo rispetto al 2019: Alimentare, -3,4%, Carta-stampa, -4,4%, Tessile, -5,5%, manifatturiere Varie, -7,9%, abbigliamento, -11,6%, e Pelli-calzature, -26,7%.

Fatturato e ordinativi

Il fatturato dell’industria a prezzi correnti segna un ottimo risultato, legato anche agli incrementi di prezzo inflazionistici in atto, con una crescita media annua del +12,1% rispetto al 2019, mentre la dinamica congiunturale rimane caratterizzata da una crescita del +3,6%. Per le imprese artigiane il fatturato cresce solo dello 0,2% rispetto al 2019, ma la dinamica congiunturale è positiva (+3,2%). La crescita media annua sul 2019 degli ordinativi dell’industria è a due cifre sia per il mercato interno (+11,0%) sia estero (+14,7%), mentre la dinamica congiunturale presenta un’accelerazione degli ordini interni (+5,0%),e un rallentamento dell’incremento degli ordini dall’estero (+3,9%). La quota di fatturato estero sul totale rimane elevata per le imprese industriali (38,7%) ma resta poco rilevante ed è in calo per le imprese artigiane (7,5%).

Prezzi e occupazione
I prezzi delle materie prime presentano una dinamica congiunturale in forte rialzo, mentre l’incremento medio annuo si attesta al +29,3% per l’industria e del 37,8% per l’artigianato. I prezzi dei prodotti finiti seguono ancora a distanza l’incremento delle materie prime, registrando a fine anno un +5,4% congiunturale per l’industria e un +6,9% per l’artigianato. In questo caso gli incrementi medi annui sono più contenuti, e pari a +11,7% per l’industria e +14,3% per l’artigianato.
Quanto all’occupazione, per l’industria presenta un saldo positivo (+0,2%) e diminuisce il ricorso alla CIG.
Stesso saldo occupazionale positivo per l’artigianato (+0,2%), e in calo al 10,9% la quota di aziende che dichiara di aver utilizzato la cassa integrazione.

Dall’intrattenimento al fitness i consumi europei si spostano a casa 

Secondo il sondaggio Covid-19 Consumer/Shopper Survey, realizzato da Bain & Company in collaborazione con Dynata, in Europa le persone che dispongono di servizi streaming hanno registrato un netto incremento, passando dal 40% del periodo pre Covid-19 al 51% di novembre 2021. Questo perché durante la pandemia i consumatori europei hanno incrementato le proprie attività domestiche. Ad esempio, spendendo una quantità di tempo significativa a guardare live TV: a novembre 2021 erano il 51% dei consumatori, contro il 46% del periodo precedente alla pandemia.
Il 36% delle persone però, rispetto al 30% del pre-Covid, ha anche dedicato più tempo alla lettura, mentre i videogame hanno conquistato il 32% degli intervistati, rispetto al 28% di prima della pandemia. Quanto ai podcast vi si è dedicato il 15% degli intervistati, contro il 12% del pre-Covid.

Si beve alcool a casa, ma si vorrebbe tornare al ristorante

In questo contesto, anche il consumo di alcolici, tradizionalmente associato ai momenti di socialità, si è spostato tra le mura domestiche. La percentuale di consumatori europei che oggi dichiara di bere principalmente a casa è il 74%, rispetto al 59% dell’epoca pre-Covid.
“Il 75% degli italiani intervistati a fine 2021 era disposto a tornare a cenare al ristorante, anche al chiuso – commenta Duilio Matrullo, Partner Bain & Company -. Questo dato era migliore della media europea, e in linea con la tradizionale propensione italiana al consumo fuori casa. Crediamo in definitiva nella resilienza del settore della ristorazione, che uscirà comunque profondamente trasformato in termini di formati e di approccio al consumatore”.

Smart working e impatto su industrie e filiere, dal real estate alla tecnologia

Per quanto riguarda lo smart working, non è destinato a scomparire con la fine della pandemia, e non avrà conseguenze solo sulla vita dei lavoratori.
“L’impatto dello smartworking – aggiunge Sergio Iardella, Partner Bain & Company – avrà conseguenze profonde su tantissime industrie e filiere: dal real estate e in generale all’urbanizzazione, fino a tutti i servizi di prossimità, che continueranno ad avere una ripresa strutturale dopo l’epoca delle grandi superfici commerciali fuori città, fino ovviamente a tutti i servizi tecnologici a casa, che subiranno un’accelerazione in termini di volumi e di sofisticazione della domanda”.

Si spende meno nei saloni di bellezza e non si torna in palestra

Per quanto riguarda le spese nei saloni di bellezza, anche in questo caso molti consumatori europei ora si prendono cura di sé nelle proprie case. Ma “gli italiani, da questo punto di vista, sono più fiduciosi della media europea – spiega Matrullo -: il 46% di loro spende meno nei saloni rispetto a quanto facesse prima della pandemia, contro il 48% europeo, e il 54% di loro, contro il 58% europeo, si aspetta che questa contrazione della spesa continui. E il mondo del fitness? Nonostante la riapertura delle palestre alcuni cambiamenti potrebbero essere strutturali. In Europa, il 25% di chi andava in palestra non è più tornato, e in Italia questo trend è ancora più accentuato. Il 34% degli italiani non ha più fatto ritorno in palestra dall’inizio della pandemia.

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