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Disaster Recovery, cos’è e quante Pmi italiano lo adottano? 

Cos’è il Disaster Recovery? E in cosa si differenzia dal Backup? “Backup e Disaster Recovery hanno due scopi profondamente diversi ma al contempo complementari. Il primo mira a salvaguardare il dato in seguito a cancellazioni, errori umani o in generale perdita dati. Il secondo protegge il sistema nel suo complesso, compreso il sito di erogazione, garantendo una ripartenza in tempi certi ed in qualunque circostanza, anche a seguito di disastri ambientali o catastrofici, andando quindi oltre il concetto di dato ed includendo invece tutto quello che gli orbita intorno” spiega Lorenzo Giuntini, CTO di Aruba. “Visti i pericoli, anche potenzialmente disastrosi, a cui si espone un’azienda priva di questi servizi, la strategia più corretta per la sua tutela è quella di implementare entrambe le soluzioni. Per farlo non esiste un’unica via: la scelta delle soluzioni e delle modalità più adatte passa attraverso un’attenta analisi dei rischi, la classificazione dei dati e la definizione del perimetro di protezione. Solo in questo modo è possibile costruire l’infrastruttura più adeguata a garantire e ad assicurare la continuità operativa aziendale in ogni condizione”.

Non più un piano B

Anche se appare evidente che oggi il il Disaster Recovery non sia più un piano B, ma una componente basilare da considerare in fase di progettazione, resta il fatto che il 68% delle piccole e medie aziende italiane non è intenzionata ad adottare una soluzione di Disaster Recovery neanche nel lungo periodo.  Ripristinare l’accesso e la funzionalità dell’infrastruttura IT a causa di attacchi informatici, interruzioni e guasti, rappresenta per le aziende la soluzione “as a service” più importante da implementare per garantire la propria business continuity. Eppure, il 73% delle PMI italiane non è dotata di un piano di Disaster Recovery. A dirlo è l’indagine condotta da Bva Doxa per Aruba sul tema della conservazione e sicurezza dei dati, e, in dettaglio, sulla disponibilità di piani di Disaster Recovery nelle PMI italiane.

L’80% delle PMI non pianifica l’adozione di un sistema di Disaster Recovery

Stando ai risultati della ricerca, il 68% delle PMI intervistate non è interessato ad introdurre piani per il ripristino dei dati neanche nel lungo periodo. Più in dettaglio, è l’80% delle piccole imprese a non pianificare l’adozione di un sistema di Disaster Recovery neanche nel prossimo futuro, a fronte del 53% delle medie imprese.
Eppure, come già reso noto in una recente Survey targata BVA Doxa-Aruba, 7 aziende su 100 hanno sperimentato una perdita di dati nel corso degli ultimi anni, subendo in media un downtime di quasi 2 giorni e con danni economici non quantificabili per il 43% degli intervistati. Nella stessa indagine, Aruba e BVA Doxa avevano rilevato anche come una PMI su 4 dichiarasse di non disporre neanche di una soluzione di backup; attestando, invece, al 57% la percentuale di aziende dotate di un backup in cloud.

Riduzione del personale e rischi di cybersecurity per le Pmi

Secondo alcuni studi, nonostante durante la pandemia la fidelizzazione dei team aziendali sia stata la priorità assoluta per quasi la metà delle organizzazioni, molte aziende potrebbero essere costrette a ‘tagliare’ il personale per ridurre i costi. Ma la riduzione del personale può causare ulteriori rischi di cybersecurity, soprattutto alle Pmi. Kaspersky ha intervistato più di 1.300 responsabili di Pmi in tutto il mondo per scoprire quali rischi di cybersecurity potrebbero comportare le misure anti-crisi. E di fatto, solo il 51% dei dirigenti è sicuro che i propri ex dipendenti non abbiano più accesso ai dati aziendali archiviati nei servizi cloud, e solo il 53% che gli ex dipendenti non possano più usare gli account aziendali.

L’uso improprio dei dati da parte degli ex dipendenti preoccupa i dirigenti

Dal momento che quasi la metà degli intervistati non è riuscita ad affermare con certezza che i propri ex dipendenti non abbiano accesso alle risorse digitali dell’azienda, la riduzione del personale potrebbe mettere ulteriormente a rischio la sicurezza dei dati e il futuro dell’azienda. Infatti, l’uso improprio dei dati da parte degli ex dipendenti nei nuovi posti di lavoro, o per procurarsi nuovi clienti, è stato il principale motivo di preoccupazione per i dirigenti. La maggior parte dei dirigenti aziendali teme infatti che gli ex dipendenti condividano i dati interni dell’azienda con i nuovi datori di lavoro (63%) o utilizzino i dati aziendali, come quelli dei vecchi clienti, per lanciare la propria attività (60%).

Quando l’accesso alle informazioni condivise non viene interrotto

“L’accesso non autorizzato può diventare un problema enorme per qualsiasi azienda, con ripercussioni sulla sua competitività quando i suoi dati vengono trasferiti a un concorrente, venduti o cancellati – ha spiegato Cesare D’Angelo, General Manager Italia di Kaspersky -. Il problema si complica quando i dipendenti utilizzano attivamente servizi aziendali o ‘shadow IT’ che non sono distribuiti o controllati dai dipartimenti IT aziendali. Se l’utilizzo di questi servizi non viene gestito dopo il licenziamento di un dipendente, ci sono poche possibilità che l’accesso alle informazioni condivise tramite queste applicazioni venga interrotto per un ex lavoratore”.

Ma le imprese non risparmiano sulla cybersecurity

Nel complesso, il 31% degli intervistati considera la riduzione dell’occupazione come una possibile misura per tagliare i costi in caso di crisi. Tra le altre misure di riduzione dei costi più diffuse gli intervistati indicano la diminuzione delle spese per la pubblicità e la promozione (36%), e quella per i veicoli (34%). La cybersecurity, invece, non sembra essere un’area in cui i responsabili preferirebbero risparmiare sul budget.

Quanto “produce” la cultura in Italia? Circa 90 miliardi di euro all’anno

La cultura in Italia vale tanto, tantissimo. Non solo a livello puramente educativo, ma anche come comparto economico a tutti gli effetti. Qualche dato, racchiuso nella dodicesima edizione del rapporto “Io sono cultura” realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere: il sistema produttivo culturale e creativo del 2021 vale 88,6 miliardi di euro, corrispondenti al 5,6% del valore aggiunto italiano e attiva complessivamente un giro d’affari di 252 miliardi di euro. Nonostante l’impatto della crisi dovuta alla pandemia, alcuni comparti culturali e creativi hanno mostrato segnali di tenuta generale. Non solo: alcuni settori hanno anche messo a segno incrementi importanti, come quello dei videogiochi e software che ha registrato un aumento della ricchezza prodotta del 7,6%. Sul fronte dell’occupazione, il settore impiega circa un milione e mezzo di persone, pari al 5,8% dell’occupazione nazionale.

Cosa rientra nel sistema produttivo culturale e creativo del nostro Paese?

Il Sistema Produttivo Culturale e Creativo comprende tutte quelle attività economiche che producono beni e servizi culturali (core), ma anche tutte quelle attività che non producono beni o servizi strettamente culturali, ma che utilizzano la cultura come input per accrescere il valore simbolico dei prodotti, quindi la loro competitività, che nello studio sono definiti creative-drive. All’interno del core coabitano attività molto diverse tra loro, accomunate dalla produzione e veicolazione di contenuti culturali e creativi. Dalle attività di conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico (attività dei musei, biblioteche, archivi, monumenti), alle arti visive e performative (attività dei teatri, concerti, etc.). A queste si aggiungono attività che operano secondo logiche “industriali” (musica, videogame, software, editoria, stampa), quelle dei broadcaster (radio, televisione), fino ad arrivare ad alcune attività appartenenti al mondo dei servizi (comunicazione, architettura, design).

Dove la cultura rende di più? 

Sia in termini di valore aggiunto sia di occupazione emerge una chiara differenziazione tra il Nord Italia e il Mezzogiorno. La grande area metropolitana di Milano è al primo posto nelle graduatorie provinciali per incidenza di ricchezza e occupazione prodotte, con il 9,5 e il 9,9%. Roma è seconda per valore aggiunto (8,5%) e quarta per occupazione (7,8%) mentre Torino si colloca terza (8,2%). Seguono, per valore aggiunto Arezzo (7,8%), Trieste (6,9%), Firenze (6,7%), Bologna (6,1%) e Padova (6 %).
In termini di occupazione, come suddetto, la leadership per incidenza dei posti di lavoro sul totale dell’economia è da attribuire a Milano. Ma il ruolo della cultura non si ferma alla sola quantificazione dei valori della filiera. Importanti sono anche i legami tra cultura e turismo. 

Il ruolo strategico dell’enterprise architect nel 2022

MEGA International, società globale di software, presenta i risultati dello studio internazionale condotto dall’istituto Enterprise Strategy Group sulle tendenze dell’enterprise architecture nel 2022.
L’indagine, che ha coinvolto 300 professionisti dell’enterprise architecture in Europa (50%) e Stati Uniti (50%), ha l’obiettivo di analizzare le sfide affrontate dalle organizzazioni in termini di enterprise architecture, e l’impatto dell’enterprise architecture sul business. La maggior parte delle organizzazioni considera ancora l’enterprise architecture principalmente come un reparto di supporto alla tecnologia, invece di considerarla come la spina dorsale essenziale per lo sviluppo del business. Gli enterprise architect rimangono però ottimisti sull’evoluzione del loro lavoro e sulla sua importanza nelle organizzazioni.

Il valore aggiunto dell’architettura d’impresa

Di fatto, il 44% delle aziende ha una visione dell’enterprise architecture incentrata sull’IT, rispetto al 26% che concentra la visione sul business. Solo il 18% degli architetti intervistati dichiara di essere sistematicamente consultato sui progetti di sviluppo aziendale. Tuttavia, la ricerca sottolinea che le collaborazioni interne con gli enterprise architect riguardano soprattutto i reparti di sicurezza, R&D e sviluppo delle applicazioni, aree in cui il valore aggiunto dell’architettura d’impresa non ha più bisogno di essere dimostrato. In particolare, il reparto sicurezza riconosce al 77% l’elevato valore aggiunto associato al Risk and Compliance Management (GRC). Allo stesso modo, le organizzazioni che considerano l’enterprise architecture principalmente come supporto tecnologico (46%), riconoscono il suo innegabile valore nella governance dei dati e nell’efficienza nella gestione dei costi IT.

Investimenti cresciuti in media del 15,7%

Il 70% delle organizzazioni riferisce che gli investimenti nell’enterprise architecture sono aumentati in media del 15,7%, e il 97% sta pianificando investimenti significativi nei prossimi due anni.
Le motivazioni principali sono la migliore gestione delle informazioni, il miglioramento dei processi aziendali e le architetture cloud. In generale, il valore della professione di business architect è considerato positivo all’interno delle organizzazioni, con il 56% degli architetti che si sente riconosciuto internamente. Per 6 architetti su 10 è una professione che offre aumenti delle competenze e prospettive di sviluppo.

C’è ancora qualche ostacolo da superare 

L’80% degli architetti aziendali intervistati afferma che la propria azienda soffre ancora di troppi processi manuali, e il 79% ritiene di avere molte difficoltà a collaborare con l’intera organizzazione, mentre lo scopo principale dell’enterprise architecture sarebbe quello di supportare le attività dell’azienda e la loro trasformazione. Di conseguenza, per la stragrande maggioranza degli intervistati, i progetti richiedono tempi di realizzazione più lunghi (77%) e costi più elevati (78%) del previsto. Eppure, nonostante i progetti siano considerati difficili, lunghi e costosi, gli architetti sono sostanzialmente soddisfatti. E 7 intervistati su 10 ritengono che i loro team EA aggiungano valore nelle aree chiave che hanno identificato.

Inquinanti aria, Italia verso obiettivi 2030

Buone notizie per quanto riguarda l’ambiente (e di conseguenza la salute dei cittadini). In base a quanto diffuso da Enea, l’Italia è avviata a centrare gli obiettivi al 2030 di riduzione delle emissioni dei principali inquinanti atmosferici, con benefici in termini di salute (-50% di decessi rispetto al 2010) ed economici (33 miliardi di euro risparmiati rispetto allo stesso anno). I dati sono contenuti in uno studio Enea pubblicato sulla rivista scientifica Atmosphere, che ha valutato l’efficacia delle politiche e delle misure per la qualità dell’aria.

Gli obiettivi del Piano

Nei prossimi 10 anni, grazie alle misure previste dal Piano, il nostro Paese potrà centrare gli obiettivi di riduzione delle emissioni stabiliti dall’Unione europea per biossido di zolfo (-80% contro un target Ue del 71%), ossidi di azoto (-70%, target Ue 65%), PM2.5 (-42%, target Ue 40%), Composti Organici Volatili Non Metanici (-50% target Ue 46%) e ammoniaca (-17% target Ue 16%).
“Per raggiungere questi obiettivi, il nostro Paese dovrà agire su più fronti, con un mix di interventi che comprendono la decarbonizzazione della produzione di energia, l’efficienza energetica nel residenziale, la diffusione della mobilità elettrica e l’adozione di nuove pratiche agricole per la riduzione delle emissioni di azoto”, spiega Ilaria D’Elia, ricercatrice del laboratorio Enea Inquinamento Atmosferico e co-autrice dello studio. “Ma questi  sono solo alcuni esempi di misure da adottare per l’abbattimento degli inquinanti atmosferici. Sarà importante che le numerose  azioni da intraprendere siano di tipo strutturale e non saltuario e che diano luogo a una vera programmazione integrata e sinergica tra politiche legate al clima, all’energia e all’inquinamento atmosferico”.

Quando fa bene “abbattere”

Secondo l’analisi svolta dal team dell’Agenzia, al 2030 la riduzione delle emissioni di biossido di zolfo sarà trainata da alcuni comparti, in particolare quello marittimo (-89% rispetto ai valori del 2010) e della produzione di energia (-59%). È previsto un forte calo anche per le emissioni degli ossidi di azoto, soprattutto nel settore del trasporto su strada (-74%) e della generazione elettrica (-46%). Sul fronte del PM2.5, il settore che fornirà il maggiore contributo in termini di abbattimento delle emissioni di particolato ultrafine è il settore civile (-46%) che continuerà a mantenere il primato per tali emissioni al 2030. L’ammoniaca rimane l’inquinante con le riduzioni più basse (-9% rispetto ai valori del 2010), un risultato ottenuto soprattutto grazie al minore impiego di fertilizzanti a base di urea nel settore agricolo e delle emissioni zootecniche.

Sostenibilità, gli italiani la cercano in vacanza? E se sì, come?

La coscienza ambientalista è un valore sempre più condiviso, in tutti gli ambiti, e anche le vacanze non fanno eccezione. Per scoprire quale sia veramente il rapporto tra italiani e sostenibilità arriva il sondaggio svolto dall’app Junker, che ha coinvolto 40mila persone in tutto il paese. Le risposte sono per certe versi sorprendenti e mettono in luce il fatto che i viaggiatori sarebbero ancora più “virtuosi” se fossero messi nelle condizioni di farlo.

Le donne più “attente” degli uomini

Tra le oltre 10mila persone che hanno completato il sondaggio, si scopre innanzitutto che il 59% è rappresentato da donne. Anche la ripartizione anagrafica è interessante: 4,3% fino ai 25 anni (per il tipo di domande il questionario era destinato a un target adulto, decisore e con capacità di spesa), 23% 26-45 anni, 53% da 46 a 65 anni e infine 19% over 65. Quest’ultimo dato è molto interessante perché, mentre dai giovanissimi ci si aspettano scelte più sostenibili anche in tema di viaggi, il target maturo era totalmente inesplorato.

Attenti anche in viaggio

Ritornando al campione, l’86,5% sostiene che il suo impegno per la sostenibilità prosegue anche in vacanza. Ci sono però risultati sorprendenti in relazione a questa importante affermazione iniziale. Se si va ad approfondire, ad esempio, il tema dell’alloggio, che è l’aspetto su cui si concentra maggiormente il sondaggio della piattaforma, il 63% dei rispondenti, circa 6700, è pronto a tenere in considerazione la sostenibilità dell’alloggio nella scelta per le proprie vacanze. Di questi, il 38,8% sarebbe disposto addirittura a pagare un 5-10% in più per alloggi realmente sostenibili. Poi però il 40,9% del target non sa rispondere alla domanda se effettivamente la struttura ricettiva presso cui ha alloggiato fosse o meno ecosostenibile. Ma cosa si aspettano da una struttura che si definisce ecosostenibile? In primis, bidoni per la differenziata (86,4%), poi l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile (65,9%) e regolatori di flusso per i rubinetti (45%). Meno considerati i prodotti sfusi/km zero offerti durante i pasti (32,3%) e i dispenser per shampoo, sapone, ecc. (29,5%).

La sostenibilità dovrebbe essere uno standard

Anche se quasi 4mila intervistati sostengono di scegliere l’alloggio soprattutto per la convenienza economica, conforta il fatto che l’88% del totale concorda che la sostenibilità di una struttura ricettiva debba essere uno standard generalmente valido e non l’eccezione e che un host attento a questo aspetto sia di buon esempio per i propri ospiti. E il 75,8% si è sentito almeno una volta a disagio quando non ha avuto a disposizione i bidoni per fare la raccolta differenziata nella struttura dove alloggiava, che davvero ci sembra il dato minimo della sostenibilità di un alloggio.

Unioncamere Lombardia, bene la produzione industriale ma il futuro preoccupa

Il secondo trimestre del 2022, in base ai dati diffusi da Unioncamere Lombardia, registra un’ulteriore crescita su quello precedente, pari a +1,6% . La variazione tendenziale sullo stesso trimestre dell’anno scorso è pari a un solido +7,4%. Eppure non mancano delle preoccupazione sul prossimo futuro, legate alla situazione geopolitica e all’aumento dei prezzi.

L’andamento dei diversi comparti 

Il rrisultato positivo è diffuso a quasi tutti i settori con l’eccezione dei soli Mezzi di trasporto che registrano invece un calo tendenziale (-5,8%). Gli ordinativi – sempre in positivo – mostrano un rallentamento più sensibile in particolare del mercato interno (+0,6%), ma l’estero (+1,3%) ha intensità della crescita che si riduce di quasi due terzi.
Risultati positivi anche per le aziende artigiane manifatturiere che segnano una crescita della produzione del +2,3% congiunturale che diventa +8,7% su base tendenziale. Per queste imprese – rivolte maggiormente al mercato interno – gli ordini mantengono il ritmo di crescita dello scorso trimestre per il dato nazionale (+1,2%) mentre per i mercati esteri si fermano a un +0,5%. Crescono maggiormente nel trimestre i settori del comparto moda (Abbigliamento, Pelli-Calzature e Tessile) che scontano ancora gap significativi da recuperare rispetto al dato medio, in particolare Abbigliamento e Tessile, avendo iniziato la fase di recupero in ritardo rispetto agli altri comparti.

“Si sta esaurendo la spinta del forte rimbalzo post crisi”

“Il quadro per la produzione lombarda rimane positivo anche nel secondo trimestre ma si sta progressivamente esaurendo la spinta del forte rimbalzo post crisi.” commenta il Presidente di Unioncamere Lombardia Gian Domenico Auricchio. “Ne risentono le aspettative degli imprenditori per il futuro – che viene visto con preoccupazione sia per la domanda interna che per quella estera – con una incertezza che si riflette anche sull’andamento della seconda parte del 2022.”

La questione prezzi

Resta alta l’attenzione sui prezzi. Beni energetici, materie prime e componenti varie registrano nuovi record spingendo il dato verso l’alto: rispetto al II° trimestre 2021 i prezzi delle materie prime sono cresciuti mediamente del 58,4% per le imprese industriali e dell’80,2% per le artigiane. Si attenuano tuttavia le difficoltà di approvvigionamento e migliora anche la situazione delle scorte di magazzino e dei materiali per la produzione. I prezzi delle materie prime presentano una dinamica congiunturale in continuo e forte rialzo per tutti i comparti. Per l’industria, dai primi segnali d’incremento di fine 2020 (+2,1%) l’accelerazione è proseguita nel corso del 2021 e si assesta ora a +11,6% congiunturale. L’artigianato mostra una dinamica simile passando dal +2,6% di fine 2020 al +16,0% di questo trimestre. I prezzi dei prodotti finiti seguono ancora da lontano l’incremento delle materie prime registrando un +6,9% per l’industria e un +8,6% per l’artigianato.

Mercato Immobiliare 2022: analisi e prospettive

Nonostante i rincari e un mercato caratterizzato da scarsa capacità reddituale e dipendenza da credito, il desiderio di acquisto dell’abitazione da parte delle famiglie continua a essere significativo
Secondo il 2° Osservatorio sul Mercato Immobiliare 2022 di Nomisma, molte famiglie intenzionate ad acquistare ammettono di non poter prescindere dal credito. L’atteggiamento delle banche, allo stesso tempo, si sta facendo più cauto e questo porterà a non soddisfare parte delle richieste.
“Sono oltre 3,3 milioni i nuclei familiari che si dicono intenzionati, potendo, ad acquistare un’abitazione – spiega Luca Dondi dall’Orologio, Amministratore Delegato Nomisma -. Colpisce il fatto che in un momento come questo, in cui si tende addirittura a erodere il risparmio, la casa rimanga nell’immaginario collettivo degli italiani un baluardo a cui aggrapparsi”.

Un’offerta residenziale non adeguata alle nuove esigenze

La domanda di casa è caratterizzata dalla ricerca di dotazioni accessorie divenute imprescindibili e dall’esigenza di raggiungere il centro urbano e i servizi in un tempo di 15 minuti da casa, a piedi o in bicicletta. 
“A questa necessità si contrappone una carenza di offerta sia per le case in vendita sia in locazione, non solo dal punto di vista quantitativo ma anche qualitativo”, precisa l’AD. In particolare, la domanda locativa deve fare i conti con la carenza di immobili di 50-90 mq e oltre i 120 mq, e con una disponibilità pressoché nulla di queste soluzioni abitative nei centri città.
Ma come sarà l’edilizia del futuro? “Estensiva, compenetrata col verde – commenta Carlo Alessandro Puri Negri, Presidente di Blue SGR -, gli uffici dovranno tenere conto di esigenze di flessibilità e di sicurezza, perché andremo sempre più incontro a una soluzione mista, che vede sia il lavoro da casa sia il lavoro in ufficio e dovranno prevedere spazi destinati al benessere e alla socialità degli occupanti”.

Compravendite e locazioni

Nell’ultimo semestre la domanda di locazione ha rappresentato il 42% della domanda presente sul mercato ed è leggermente cresciuta rispetto all’anno scorso. Nonostante questo lieve aumento, si è ancora molto lontani dal punto di equilibrio acquisto-locazione rilevato nel periodo pre-Covid. 
Come ha evidenziato la Responsabile dell’Osservatorio Immobiliare Elena Molignoni, sono principalmente due le motivazioni che spingono la domanda di affitto: “una percentuale esigua di famiglie sceglie questa opzione per ragioni familiari e lavorative, mentre la maggior parte si orienta sulla locazione perché si sente esclusa stabilmente o temporaneamente dal mercato della proprietà”.

La risalita dei prezzi tocca anche uffici e negozi

Al 30 giugno 2022 la variazione annuale dei prezzi delle abitazioni è risultata pari al +2,9% nella media dei 13 principali mercati nazionali, con un range di variazione che va dal +6,3% di Milano al -0,2% di Venezia Laguna. Un risultato coerente con l’intensità della domanda e l’incremento delle compravendite. La dinamica di rialzo dei prezzi ha interessato anche uffici e negozi, che dopo 13 anni di flessione, hanno registrato per la prima volta una variazione positiva dei prezzi, timida risalita dovuta alla riduzione del potere contrattuale della domanda.

Cresce la spesa digitale dei professionisti: +3,8%

Nel corso del 2021 i professionisti italiani hanno investito complessivamente 1,76 miliardi di euro in tecnologie digitali, il +3,8% rispetto al 2020. Sono alcuni risultati della ricerca dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano.
Il dato è quindi positivo, nonostante per la prima volta in dieci anni l’incremento percentuale sia inferiore a quello evidenziato dalle aziende (+4,1%). Solo i grandi studi, prevalentemente del settore legale, hanno elaborato una strategia in grado di innovare il business attraverso le tecnologie più evolute, mentre la maggior parte degli studi professionali presenta modelli di business statici, che hanno indirizzato gli investimenti in digitale verso le esigenze contingenti, come l’adozione dello Smart working.

Gli studi multi professionali spendono di più

Una forte differenza si evidenzia infatti considerando le dimensioni degli studi professionali di avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro. Tra le micro realtà, l’11% non ha investito nulla in ICT e solo l’1% ha destinato più di 10mila euro, mentre tra gli studi piccoli, medi e grandi solo il 3% non ha investito in tecnologia e il 22% investe più di 10mila euro. Tra i diversi settori, gli studi multi professionali sono quelli che spendono di più per il digitale (in media 25.050 euro), in linea con il 2020. Gli avvocati hanno visto un aumento degli investimenti del +2,9% (8.950 euro medi), i consulenti del lavoro del +2,5 (10.350 euro), mentre i commercialisti hanno visto scendere gli investimenti in ICT del -5,4% (11.450 euro).

La collaborazione è un fattore chiave

A essere più penalizzati dalla pandemia sono soprattutto gli avvocati: solo per uno studio legale su due il 2021 è stato più favorevole del 2020. Al contrario, i provvedimenti del governo a sostegno delle attività economiche hanno incrementato l’attività di commercialisti, consulenti del lavoro e studi multidisciplinari, che nel 60% dei casi, hanno visto aumentare la redditività rispetto al 2020. Per rilanciare gli studi in termini economici e finanziari, la collaborazione o l’aggregazione con altre realtà è un fattore chiave. Quelli che realizzano in modo stabile collaborazioni con altri studi o realtà diverse per sviluppare business congiuntamente evidenziano una percentuale di redditività più alta (68%) rispetto alla media generale (58%). Ma è una pratica ancora poco diffusa: solo l’8% degli studi ha avviato collaborazioni formalizzate.

Gli ambiti di investimento

Le professioni hanno destinato investimenti in ICT soprattutto per fattura elettronica (86%), sistemi per la gestione di videochiamate (75%), piattaforme di e-learning (48%), conservazione digitale a norma (42%) e reti VPN (36%).  In merito alle intenzioni di investimento entro il 2023, gli avvocati privilegiano sito web (13%), pagina social dello Studio (9%) e conservazione digitale a norma (7%). I commercialisti puntano su conservazione digitale a norma (9%), software per il controllo di gestione, sito internet per lo Studio e gestione elettronica documentale (tutti al 6%), e i consulenti del lavoro, la conservazione digitale a norma (12%), il sito per lo Studio (7%), il software per la gestione della crisi d’impresa.

Cyber minacce sempre più forti, il ruolo della resilienza informatica

Le minacce informatiche sono una costante di questi ultimi anni e, complici anche tensioni internazionali tra le maggiori superpotenze e tra produttori di chip e cryptominer, stanno addirittura aumentando, mettendo in pericolo soprattutto aziende grandi e piccole. Probabilmente l’attuale contesto delle minacce cyber è un effetto collaterale del passaggio al lavoro da remoto incentivato dalla pandemia e dell’esposizione alle vulnerabilità della supply chain. Per esplorare cosa stia accadendo a livello di rischi informatici Acronis ha individuato alcune tendenze da tenere sotto controllo nel 2022.

Cosa è accaduto quest’anno

 Il ransomware è sempre in cima all’elenco delle minacce, mentre il furto dei dati e le perdite economiche rappresentano solo una parte del quadro complessivo, di cui fanno parte anche l’esposizione dei dati sensibili e le minacce ransomware perpetrate da parte di gruppi politici e di attivisti. I contrasti interni che emergono nei gruppi di ransomware possono portare alla diffusione dei dati privati di un’organizzazione, anche se la vittima ha pagato il riscatto, il che rende tali minacce ancora più serie. Le e-mail potenzialmente dannose e quelle di phishing sono ancora il principale vettore di infezione da cui originano gli attacchi. Gli attacchi alle supply chain software, come Log4j e SolarWinds, colpiscono migliaia di organizzazioni in tutto il mondo, minacciando infrastrutture critiche e aziende. Gli attacchi silenti, in particolare quelli perpetrati tramite i collaboratori da remoto che spesso lavorano sui propri dispositivi, sono un altro potenziale problema di sicurezza, che i cybercriminali sfruttano per accedere ai sistemi e rubare le informazioni senza che la vittima ne sia consapevole. Spesso si tratta di spionaggio industriale. Aumenta anche la frequenza degli attacchi ai sistemi Linux e macOS. In questo contesto in evoluzione, le organizzazioni puntano a creare piani di resilienza coesi che consentano di proteggere la proprietà intellettuale, i clienti e le supply chain. Per districarsi tra le potenziali minacce, molte aziende si affidano ai Managed Service Provider (MSP) e a professionisti dell’IT esterni.

Resilienza informatica per MSP e professionisti dell’IT

“Oltre alla Cyber Security, uno degli argomenti più discussi è oggi la resilienza informatica, ovvero la capacità dell’infrastruttura IT di reggere a cambiamenti e trasformazioni e di tornare rapidamente a una condizione di stabilità. In altri termini, al reparto IT spetta il compito di realizzare un’infrastruttura IT capace di funzionare in modo continuativo anche dopo aver subito un attacco o una potenziale compromissione da parte dei criminali informatici (una ricerca di IDC ha evidenziato che nei due anni passati il 73% delle aziende ha subito una grave violazione della sicurezza). Service Provider e i professionisti dell’IT che forniscono servizi di sicurezza devono partire dal presupposto che i dati sono costantemente sotto attacco. Va quindi da sé che la resilienza informatica debba garantire la continuità aziendale durante un attacco e l’esecuzione del ripristino nella fase successiva”, commenta Denis Cassinerio, Regional Sales Director per l’Europa meridionale di Acronis. “È altrettanto importante saper valutare le esigenze specifiche dei clienti, i cui requisiti possono variare in funzione del settore e dell’area geografica in cui operano, del tipo di dati che vengono archiviati e dell’entità del lavoro da remoto. Offrire diversi livelli di piani di sicurezza e conoscere tutti i dettagli è un valido aiuto per erogare il livello di protezione più adatto. Per creare il piano di resilienza informatica più efficace per ogni cliente occorre valutare i rischi a cui è più vulnerabile, analizzare l’intera organizzazione e documentare i processi e le procedure aziendali chiave”.

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